Società
In fila per tre
Sono al supermercato, non ricordo più perché, ho perso la mia bella lista e mi è rimasta in mano solo la penna per depennare nulla, visto che la lista non c’è più! Vedo altri clienti, molto più avvezzi di me a fare spesa e a parlare fitto, fitto, tra loro. Si conoscono, c’è una certa familiarità. Noto che si muovono tra gli scaffali con la leggerezza delle farfalle. Ora qui, ora là. Dopo venti minuti, alcuni sono fuori, all’aria aperta! I più hanno i carrelli pieni e continuano a socializzare, con le dovute precauzioni, parlano, parlano, condividono pensieri, opinioni, ognuno espone le proprie ragioni, mentre nel mio carrello quasi vuoto ci sono solo tre cose, che conquisto dopo aver chiesto informazioni alla cassiera n. 1, alla cassiera n. 2, allo scaffalista. Gentilmente, mi indicano i posti dove posso trovare gli alimenti richiesti. Tre domande e tre prodotti! La frustrazione sale e mi ritrovo a canticchiare un brano musicale, ma non vi saprei dire con esattezza perché proprio questo brano di Edoardo Bennato. Forse per la conversazione tra marito e moglie nella fila della cassa n. 1? Per la discussione dei coniugi, in quarta posizione, nella fila della cassa n. 2? Forse perché, anche se non siamo in fila per tre, comunque siamo in fila, ben ordinati, inquadrati, anche se distanziati e muniti delle nostre mascherine anti-covid? Non mi soffermo oltre sul brano e sulle ragioni del mio canticchiare. Lascio al lettore le sue riflessioni estive sull’illusione della libertà e la fame e sete di controllo e di sicurezza.
Vorrei, invece, condividere con voi i contenuti della conversazione e della discussione dei due coniugi. Per brevità, potremmo dire “buoni e cattivi” o “in fila per tre”.
La prima coppia conversa serenamente, con tono di voce pacato, su cosa fare la domenica, ogni domenica. Una in piscina, l’altra al mare, l’altra ancora in montagna, da soli o con gli amici. La cosa importante, fondamentale, sarà di non prestarsi più, mai più, a preparare il “pranzo domenicale da mammà”. Loro, i figli, si presentano all’ultimo momento, giusto per sedersi a tavola e vanno via subito dopo pranzo. Senza aiutare ad apparecchiare o sparecchiare la tavola, senza chiedere se possono dare una mano in cucina, senza nessuna cura e attenzione per i genitori. Oggi, “ristorante”, ieri, nell’adolescenza, “albergo”! Per chi? Per gli stessi clienti, ai quali si sono aggiunti “quello” o “quella”? Parte la “ola” dalla fila della cassa n. 1. Sembra di stare allo stadio. Un fragoroso boato copre ogni altro suono: – che goal! – Un’ovazione! Tutti concordi, pienamente e platealmente, prevalentemente persone di mezza età e oltre, non possono darsi pacche sulle spalle causa covid, ma i segni di vicinanza sono evidenti: pollicioni alzati, sguardi di approvazione verso la coppia. I pochi giovani, in fila, sono inghiottiti tra gli scaffali per le ultime cose da acquistare.
La seconda coppia discute animatamente. Impossibile non sentire cosa dicono, anche distraendosi canticchiando. I toni sono accesi e concitati. Non c’è astio, è solo una modalità di comunicazione. Urlano nella forma e concordano nella sostanza. Non tollerano più l’assenza di reciprocità. I genitori oltre la mezza età e nonni, da una lato del ring, come sparring partner, e i campioni, dall’altro lato del ring, giovani adulti o adulti giovanili con prole; famiglia dei figli con nipoti. Si chiedono che amore, che legame, possa esserci senza la reciprocità. Loro sempre disponibili a dare, dare, dare. Se richiesto, a fare, fare e fare. A correre alle richieste di aiuto, a essere presenti nel soddisfare i bisogni altrui. Umiliati e offesi, anzi disconosciuti, le rare volte che esprimono un proprio bisogno. Devono riconoscere i bisogni altrui, ma non possono esprime i propri. Via, via, che la sofferenza aumenta, i toni calano. Si ferma anche il vociare nel supermercato che, per pochi istanti, sembra un tempio; c’è rispettoso silenzio dinanzi al dolore, alla sofferenza. E’ un silenzio di vicinanza, di senso di appartenenza. È un attimo, solo un momento di pausa, prima di aprire il capitolo del “bradipo ipovedente in poltrona” e del conseguente quesito, senza risposta, del perché gli altri non riescano a vedere le possibili cose da fare: un piatto, un bicchiere da lavare, una sedia fuori posto …
Condivido queste due conversazioni, che ho ascoltato mio malgrado, perché hanno a che fare con le nostre riflessioni settimanali, con le “chiusure e aperture all’altro”, con la necessità di “agire, osare”, con gli ideali giovanili dei “quattro amici al bar”, con i “punti zero” convergenti nella fratellanza, con la “cultura del dare” e con “la strategia dei piccoli passi”. Hanno a che fare con la libertà, con le comunità e con il grande mistero della trasmissione dei doni tra le generazioni .
Assorto in questi pensieri, mi ritorna in mente un breve scritto di Ermanno Olmi.
Un caro amico pochi giorni fa mi ha inviato un messaggio whatsapp, così prendo il telefono e lo leggo a Mario, lo scaffalista. Forse ho il tono di voce un po’ alto, perché anche le due coppie ascoltato con attenzione, forse l’interesse per Olmi le invoglia a fermarsi. Ecco cosa dice il celebre regista: “I giovani che abbiamo intorno hanno una moneta che non devono assolutamente rinunciare a spendere per il valore che ha, quello di una giovinezza che deve riscuotere il diritto inalienabile di creare le condizioni di un futuro per vivere degnamente. Devono credere nella possibilità di cambiare le cose del mondo, ma anche la loro vita individuale in meglio. Se s’impegnano in questo, saranno un esempio per chi non ha inizialmente lo stesso slancio e la stessa carica di ribellione”.
Rompiamo le righe. Non se ne può più di stare in fila per tre.
Filippo Pagliarulo
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