Società
La logica del denaro
La natura ambivalente del denaro è chiara a tutti noi: siamo sia attratti dal possedere denaro, perché garantisce benessere duraturo, potere decisionale, speranza nel futuro, sia spaventati dalla sua carenza, sia preoccupati dall’eccesso di concentrazione nelle mani di pochi (Simmel G., 1900-1907, tr.it. Filosofia del denaro, Torino, Utet, 1984). Per dirla con un’espressione presente nel titolo di questo seminario: la money logic domina le nostre vite, sia nelle condizioni di possesso, sia in quelle di mancanza di possesso di denaro sufficiente a soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni (Luhmann N., 1996, La società del rischio, Milano, Bruno Mondadori). I nostri livelli di autorealizzazione, di felicità, di soddisfazione sono da noi stessi valutati sempre più di frequente a partire dalla quantità di denaro di cui disponiamo per noi e per le persone che amiamo. La nostra stessa capacità di aspirare a un futuro migliore è strettamente correlata alle nostre capacità di rispondere alla money logic. Per esempio, immaginiamo la nostra capacità realizzativa in base alla ricchezza di cui disponiamo. Simone Weil negli anni quaranta del secolo scorso metteva in guardia da questa rischiosa situazione. Ella scriveva che: “Facendo del danaro il movente unico, o quasi, di tutti gli atti, la misura unica, o quasi, di tutte le cose, abbiamo diffuso ovunque il veleno dell’ineguaglianza” [Weil S., 1949 or. francese; tr.it. La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano 1990, p. 9]. E proseguiva la sua riflessine in questo modo:
“I sindacati non possono vivere se gli operai vi sono ossessionati dal danaro, come in fabbrica, durante il lavoro a cottimo. In primo luogo perché ne viene quella specie di morte morale, che l’ossessione del guadagno provoca sempre. E poi perché, nelle condizioni sociali presenti, il sindacato, venendo ad essere allora un fattore perpetuamente attivo nella vita economica del paese, finisce inevitabilmente per essere trasformato in organizzazione professionale unica, obbligatoria, inserita nella vita ufficiale” [Weil 1990, p. 15].
La logica del denaro sta informando (nel senso di dare forma) le relazioni sociali e istituzionali, interpersonali e sistemiche, nazionali e globali, ed è giunta a convincerci che il possesso di denaro sia la modalità giusta (se non l’unica) per sperare di vedere “soddisfatte crescenti aspettative di autorealizzazione, di libera espressività, di autoaffermazione”.
La logica del denaro ci sta convincendo che il denaro sia capace di sostenere:
“1. la crescente domanda di soggettivazione e singolarizzazione dei bisogni degli individui, consapevoli dei propri diritti di autorealizzazione e individualizzazione;
- la crescente necessità di adeguamento alla razionalità astratta di apparati istituzionali, che impongono scelte standardizzate e funzionali alle logiche finanziarie globalizzate” (Maniscalco M.L., 2002, Sociologia del denaro, Bari, Laterza, p. 6).
Per evitare equivoci, è bene chiarire che non si conoscono società senza denaro, ovvero: senza l’esistenza di un’idea/concetto di un oggetto dal valore astratto utilizzato dagli attori sociali per scambiare merci (Godelier M., 1970, La moneta di sale, Milano, Lampugnani Nigri).
È bene anche tener presente che il denaro è un’arma capace al contempo di liberare e di asservire: esso tende a concentrarsi nelle mani di quei pochi che già ne hanno più degli altri (l’effetto San Matteo), pertanto, esso è la variabile socioeconomica su cui si costruisce la disuguaglianza sociale.
Se tutto questo detto in premessa è accettato, che chiaro a tutti che non si possono fare ragionamenti sensati sull’organizzazione sociale e sulle reali capacità degli attori sociale di costruire al meglio le proprie vite, senza riflettere sulla logica di funzionamento del denaro.
Il potere del denaro
Gli antropologi offrono un aiuto importante per comprendere la natura del denaro e la priorità logica del denaro sulla moneta. Le quattro caratteristiche e indispensabili funzioni della moneta (misura del valore, mezzo di pagamento, mezzo di scambio, riserva del valore) la rendono evidentemente un oggetto socialmente riconosciuto e accettato e stabiliscono al contempo un legame stretto con il denaro. Particolarmente interessanti sono al riguardo le argomentazioni di Marcel Mauss (Saggio sul dono, 1923-24; tr.it. Einaudi,2002), Maurice Godelier (Moneta di sale, 1970)e Marshall Sahlins (Economia dell’età della pietra, Bompiani, 1972), dalle quali si evince una priorità logico-temporale del concetto di denaro rispetto all’oggetto moneta, la quale si presenta fin dall’inizio della sua apparizione come un oggetto sociale. Mauss sostiene che la funzione degli oggetti preziosi nelle società arcaiche corrisponde alla moderna funzione del denaro, ed è in questo contesto che non è possibile cogliere nel denaro un aspetto economico allo stato puro. Solo successivamente gli oggetti magici e socialmente preziosi, a cui le comunità avevano attribuito un potere d’acquisto, impiegati originariamente anche per numerare e far circolare ciò che veniva considerato ricchezza, si sarebbero autonomizzati dalle singole persone e dalla collettività e avrebbero assunto il carattere stabile di misura del valore e anche di misura universale. Già le primordiali monete posseggono immagini che rimandano a entità magiche, simboliche, religiose, politiche.
Il denaro opera pertanto in quanto concetto, in quanto idea, e genera azioni. In primo luogo, fa muovere il pensiero, fa muovere la mente all’idea del suo stesso possesso, fa pensare a come fare denaro, cosa farne, come impiegarlo, quale veste concreta dargli, a come produrre ricchezza per sé e per altri, e in secondo luogo, in quanto derivato, fa muovere e moltiplicare le cose nella realtà sociale.
Pagando con il denaro per avere in cambio beni e servizi, diamo un mezzo che non ha valore in sé, ma offriamo una promessa di pagamento (vedi Simmel 1984, pp. 262-263; Tönnies F., 1887, Comunità e società, tr.it. Utet, 1963, pp. 88-89 e 228; Weber M., 1922, Economia e società, tr.it. Utet, 1968, cap. VI].
Chi accetta il denaro agisce in base alla aspettativa che questa promessa di pagamento verrà rispettata. In tal senso, lo scambio si basa sulla fiducia che il denaro, mantenendo nel tempo il suo valore, verrà accettato da altri in cambio di altri beni e servizi.
In questa dinamica, il denaro funziona da mezzo per fare girare l’economia sostanziale, quella che produce beni e servizi per soddisfare i bisogni essenziali delle persone (Polanyi K., 1944, tr.it. La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974).
Nella attuale fase di finanziarizzazione del sistema economico, nel quale l’economia di carta ha superato l’economia reale, fare soldi è diventato più importante del creare benessere per gli uomini e le donne.
Quando l’obiettivo sociale da raggiungere è fare soldi, l’intero sistema sociale prende forma a partire da questo input.
In tal modo, accade che una buona parte dei diritti delle persone venga sottomessa alla logica del denaro, nella quale il denaro viene considerato come “il pharmakon per eccellenza, nella duplice accezione di medicamento e di veleno” (Maniscalco 2002, IX).
Abbiamo già detto che senza denaro non si danno società umane; è opportuno però aggiungere che senza limitare il potere del denaro le società umane rischiano il collasso.
Se volessimo rimanere all’interno della metafora del farmaco, è la posologia che trasforma un medicinale in un veleno. In quest’ottica, possiamo dire che il denaro costruisce società, ma se è eccessivo il denaro distrugge società.
Per esempio: i bisogni materiali delle persone richiedono un’adeguata quantità di denaro per produrre, distribuire e consumare beni e servizi necessari a soddisfarli. Oltre un certo limite, si creano artificialmente sia i bisogni sia il denaro. L’eccedenza crea seri problemi sociali sia per smaltire la massa di rifiuti da consumo, sia per gestire la crescita di disuguaglianza da concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.
Nelle società precedenti l’attuale chi possedeva molto denaro era socialmente obbligato a redistribuirlo sotto forma di dono (da non confonderlo con l’elemosina) agli altri componenti la società nella quale era il capo/leader/responsabile; spesso questa distribuzione si caratterizzava come un dovere a forte connotazione sacrale. In cambio, si riceveva rispetto sociale e conferma nei ruoli di potere gerarchico. In questa dinamica sociale il denaro svolgeva la funzione di favorire il riconoscimento reciproco delle capacità: da una parte chi era capace di donare e dall’altra chi era capace di ricevere.
Il noto sociologo francese Alain Touraine descrive la nostra realtà sociale come una società dopo-sociale, intendendo in tal modo affermare che i sistemi si stanno strutturando senza avere più bisogno delle istituzioni e delle strutture tipicamente sociali: la politica, i partiti, i sindacati, la famiglia, la scuola, le associazioni, lasciando tutto lo spazio regolativo alle logiche operative del denaro e della tecnologia.
Per comprendere meglio il significato di una tale affermazione, credo sia utile portare alla vostra attenzione quanto ebbe a scrivere Bill Joy in un noto articolo del 2000. Bill Joy è stato cofondatore e capo scienziato di Sun Microsystems, nonché dirigente della commissione presidenziale statunitense sul futuro della ricerca IT, ed è coautore del linguaggio Java.
L’articolo aveva questo titolo: Perché il futuro non ha bisogno di noi. In esso lo studioso sosteneva che le nostre più potenti tecnologie del XXI secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e le nanotecnologia – minacciano di far degli umani una specie a rischio di estinzione.
Bill Joy prima di scrivere questo durissimo articolo aveva letto uno studio di un altro rispettato studioso di tecnologie (Ray Kurzweil, 1999, The Age of Spiritual Machines). Stiamo parlando di uno stimatissimo ingegnere inventore, tra le altre cose, di una macchina per la lettura automatica che consente a persone non vedenti di comprendere testi scritti, grazie a un computer che li legge ad alta voce.
Joy si dice molto preoccupato da questo sviluppo tumultuoso della tecnologia che auto-apprende, perché può giungere facilmente al livello della singolarità, momento dal quale l’intelligenza delle macchine spererà quella umana. Da quel momento, le società avranno bisogno di macchine più che di uomini e donne per funzionare e riprodursi (Ray Kurzweil, 2005, The Singularity is Near).
Ritorniamo al potere del denaro. Esso è strettamente connesso allo sviluppo tecnologico: immaginate il costo economico-finanziario da sostenere per sviluppare nuova conoscenza e nuove tecnologie; immaginiamo anche il costo per brevettare questa conoscenza contenuta in quelle tecnologie; immaginate anche la gran massa di uomini e donne completamente esclusi da queste dinamiche (sapere-tecnologia-denaro).
Ovvero: il benessere ha bisogno di finanziatori, i quali investono per ricavarne un profitto e, si spera, per rimettere in circolare nuovi finanziamenti finalizzati alla conoscenza e alle tecnologie che ci fanno vivere meglio.
Fino a un certo livello, questa dinamica è virtuosa; da un certo livello in avanti diventa viziosa, nel senso che crea un circolo vizioso dal quale non si riesce a uscirne.
Per esempio, sebbene l’uomo non possa fare a meno di una logica di mercato per produrre e consumare beni e servizi indispensabili alla sua vita, ai suoi bisogni essenziali e ai suoi diritti umani, egli non può essere sottomesso alla logica del denaro, secondo la quale le persone svolgono un ruolo ancillare alla potenza salvifica del denaro.
Nell’attuale organizzazione socio-economica, infatti, il denaro ha assunto il valore di codice dell’agire umano e sociale: la money logic è giunta a essere considerata l’equivalente astratto di ogni diritto e dovere relazionale (Weil 1990; Galbraith J. K., 1997, Soldi. Conoscere le logiche del denaro per capire le grandi crisi, Milano, Rizzoli).
In tal senso, tutti gli uomini globalmente considerati sono percepiti e vagliati a partire dalla loro capacità di agire in base a quel codice e di rispettare quella logica relazionale; i diritti e i doveri di ciascun uomo e di ciascuna donna sono secondari. In quest’ottica, si rischia di trascurare, fino a disconoscerne l’irrinunciabilità, del valore del rispetto che si deve a ogni uomo, giungendo a negare la stessa dignità reale che ciascun di noi porta con sé per il solo fatto di esistere (Weil S., 2012, La persona e il sacro, Milano, Adelphi).
Rispetto e dignità umana
La filosofa statunitense Martha Nussbaum si interroga su quale sia un modo di vivere e agire minimamente compatibile con la dignità umana. Per la filosofa il compito irrinunciabile di una società decente consiste nel riconoscere a tutti i cittadini quelle condizioni sociali per sviluppare e utilizzare le proprie capacità (Nussbaum 2007, p. 199). Per farsi comprendere meglio, ella afferma che:
“In tutto il mondo le persone si sforzano di vivere con dignità. Spesso gli statisti puntano esclusivamente alla crescita economica nazionale, mentre le persone cercano qualcosa di diverso: cercano una vita che abbia significato” (Nussbaum M. C., 2012, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Bologna, il Mulino, p. 11).
La dignità è una risorsa umana irrinunciabile (Butler J., 2013, A chi spetta una buona vita?, Milano, Nottetempo). Riconoscere meritevole di rispetto tutti gli uomini per la sola dignità e non in relazione alle loro capacità di esercitare funzioni di pregio nella società, impegna ciascuno di noi e ciascun apparato istituzionale a strutturarsi come società decente.
“Che cos’è una società decente? La risposta che suggerisco in prima istanza è la seguente: una società decente è una società le cui istituzioni non umiliano le persone. Distinguo società decente da società civile. Civile è una società i cui membri non si umiliano gli uni con gli altri: decente è una società le cui istituzioni non umiliano le persone” (Margalit A., 1998, La società decente, Milano, Guerini e associati, p. 49).
Strettamente connesso alla creazione di una società decente, capace di garantire opportunità per tutti di vivere una vita degna di essere vissuta, è la capacità di aspirare a una vita migliore. In termini sociologici, la società deve comunicare ai suoi cittadini che sono garantite a tutti le condizioni di dignità, libertà di azione e di mobilità sociale. Per i sociologi, i meccanismi di stratificazione e di mobilità sono informati da tre fattori sociali interconnessi (ricchezza, prestigio sociale, potere politico).
Poiché il denaro è diventato il più visibile e riconosciuto fattore di stratificazione e mobilità sociale, oscurando del tutto gli altri due, chi non ha le risorse economiche sufficienti o addirittura le vede ridursi e diventare inaccessibili, allora quelle garanzie sociali di decenza diventano insignificanti.
Bloccare crescenti strati della popolazione alla base della piramide della stratificazione e comunicare che le possibilità di mobilitarsi per ascendere lunga quella piramide è uno dei meccanismi cognitivi che sta generando ansia, depressione, disperazione; ma anche rinuncia, disimpegno morale, vergogna e umiliazione.
Conclusioni
Per Touraine il nemico peggiore per la salvezza del sociale, risiede nella ormai diffusissima e sempre più legittimata protervia di zittire tutti coloro che non vogliono sottostare all’inevitabile legge economica, quella legge che ha reso le nostre società delle società non più sociali [Alain Touraine, 2008, La globalizzazione e la fine del sociale, Milano, Il Saggiatore; Id, 2018, Défense de la Modernité, Paris, pp. 11-12]
Forse siamo a un punto di biforcazione e dobbiamo decidere per noi stessi e per la qualità e non soltanto per la quantità di vita che vogliamo vivere noi e le persone che amiamo. In tal senso, credo che possa essere utile anche riflettere sull’urgenza di formare o riformare quella capacità tipicamente umana che Howard Gardner chiama intelligenza etica (Gardner H., 2007, Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, pp. 12-14, 135 ss).
Si tratta di un’intelligenza che aiuta ciascuno di noi a rimanere in contatto con se stessi e con gli altri, in relazioni moralmente sostenibili. Si tratta di un’intelligenza che aiuta a combattere quel disimpegno morale che ha reso storicamente i peggiori servigi al genere umano.
Il «disimpegno morale» (Bandura A., 2017, Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, Trento, Erickson) è un mezzo che consente all’individuo di «disinnescare» temporaneamente la sua coscienza personale mettendo in atto comportamenti inumani, o semplicemente lesivi, senza sentirsi in colpa. Si tratta, come spiega Albert Bandura, di «un problema sociale sempre più pressante in tutte le traiettorie della vita».
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