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Smartché e Noesì

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Smartché e Noesì

Siamo al bar, un gruppo di amici e qualche pensionato. Nasce una discussione sullo Smart working. Fortunatamente non c’è alcun giovane, non perché non mi entusiasmi il dialogo intergenerazionale, anzi, ma per l’assenza di lavoro che potrebbe indurli in tentazione, invitandoci a raggiungere indesiderati lidi, scurrili complementi di moto a luogo. C’è chi ha le idee molto chiare, in quanto depositario della Verità, e non è disposto al dialogo. Questo, dall’una e dall’altra parte, da chi è pro e da chi è contro il “lavoro agile”. Mentre parliamo, un anziano signore, distinto, oltre la mezza età, si avvicina e chiede cortesemente di intervenire. Gli diamo la parola e ci raccolta una storiella. Una società di servizi dall’emblematica ragione sociale “Noesì”, che con un po’ di attenzione è leggibile come “No” e “Sì” offre servizi alle aziende. In prevalenza consulenze. E’ come dire: – Vado dall’imprenditore e gli offro i miei servizi. Se gli piacciono, rientriamo nella postura relazionale del “Sì” e chiudiamo il contratto. Se li rifiuta, rientro nella postura relazionale del “No”, mi faccio dire cosa gli occorre e glielo propongo. Cioè gli offro quello lui vuole e  non quello che servirebbe alla sua azienda, e provo a chiudere il contratto. I due soci consulenti per comodità li chiameremo “il gatto e la volpe” – A questo punto, ci parla della professionalità, di come sia importante che ogni lavoro, anche il più umile, sia fatto con interesse, con passione, con professionalità appunto, con la convinzione di co-costruire qualcosa (sia beni, sia servizi) per il bene comune e, comunque, per il bene dell’acquirente, che non va assecondato come fanno “il gatto e la volpe” per trarre il massimo beneficio solo per sé. Piuttosto, professionalmente, non va chiuso il contratto se la scelta dell’imprenditore è autolesiva. Tutto questo per arrivare a dirci, dopo che si è accomodato al tavolino, –  Ora, mi dite cos’è questo Smartchè? –  Luigi, che è il meno anziano tra di noi, ha una rivista con tutti i dati statistici sul lavoro agile in Italia, nell’ultimo triennio. Ci promette che non leggerà i dati, ma solo, ogni tanto, qualche riga dell’articolo per rispondere alla domanda dell’anziano signore distinto, di mezza età che, per simpatia verso Collodi e nostra comodità, chiameremo “Grillo parlante”.  Luigi può godere del nostro credito condizionato. Non dovrà sgarrare, pena l’immediato sequestro della rivista. Procede così, fa una panoramica brevissima sullo Smartchè, una digressione sulle possibili devianze da “Noesismo” di ritorno, e una conclusione, altrettanto breve, sui pro e i contro, questa volta sui “No” e i “Sì” come risposte professionalmente valide, nel reciproco interesse di tutte le parti coinvolte. Per consentire al lettore di approfondire o meno l’argomento, rimandiamo alle schede 1 e 2. Ridiamo la parola al nostro  “grillo parlante”, che tira le sue conclusioni. Fintanto che c’è una cultura chiusa della PMI, ci sarà anche altro: scambiamo i banchieri con i bancari, omettiamo una casta tra gli eroi del lockdown, nel mercato c’è spazio per il “gatto e la volpe”, rifiutiamo lo Smartchè, tiriamo in ballo Max Weber, anche senza citarlo, immaginiamo lo Smartchè come epifania della liberazione del lavoro dai vincoli di spazio e di tempo, mistifichiamo e formuliamo l’ardita equazione Smartchè è uguale al welfare aziendale. Ma appena ci mettiamo in gioco e mostriamo le nostre fragilità, senza chiusure a priori, siamo disposti al dialogo, investiamo in ricerca, cerchiamo di ottenere dati sempre più attendibili su questa nuova creatura che è lo Smart working, l’alimentiamo perché possa crescere e arricchire la cultura e l’organizzazione delle imprese, facciamo del “lavoro agile” una risorsa, né più, né meno.

Filippo Pagliarulo

I  pro e i contro                                                                                                                                                                 Scheda

Il difensore ossessivo-compulsivo del “lavoro agile” non tiene conto:

•             dei lavoratori e delle lavoratrici delle aziende che hanno garantito i servizi “essenziali”, praticamente quelli che non potevano svolgere “lavoro agile”;

•             di chi non ha condizioni domestiche adeguate

a) per gli spazi e le difficoltà a dividere l’ambiente lavorativo da quello casalingo;

b) per lo sfavorevole contesto familiare che impedisce di indossare i panni del  “lavoratore agile”;

c) per inadeguati strumenti e tecnologie (immaginate per un attimo a tutto ciò che mette a disposizione il datore di lavoro allo smart worker la cui abitazione non è coperta dalla fibra, ma neppure da una rete in cui la trasmissione dati vada più veloce di un calesse!);

•             dei problemi legati alla solitudine, alla perdita di contatto con le persone, e ai maggiori rischi di distrazioni;

•             delle affermazioni che non ammettono repliche e che si diffondono come verità assolute, senza se e senza ma, del tipo:

– In smart working, durante il lockdown, si è lavorato di più – Di più? Forse si è lavorato meglio, forse la “flessibilità” ha fatto lavorare meglio, ma non di più. Altrimenti in ufficio, fai esercitazioni sui pollici opponibili? Oppure, mi stai dicendo che il lavoro in ufficio, privo di flessibilità, non tiene conto dei cali fisiologici di rendimento nell’arco temporale della giornata lavorativa?

– La produttività è cresciuta – Cresciuta? Per tutti è così?  Sarebbe possibile vedere i dati quantitativi del presunto incremento della produttività dell’impiegato amministrativo dell’ufficio personale o dell’ufficio contabilità e bilancio? Voglio dire, la produttività è cresciuta per tutti o solo per alcune figure professionali in smart working? Solo per quelle professionalità che hanno scelto il “lavoro agile” o anche per quelle che l’hanno subito?

Chi rifiuta aprioristicamente qualsiasi novità che possa contaminare in qualche modo la cultura e l’organizzazione del lavoro, parla del “lavoro agile”, omettendo di considerare:

•             la riduzione dei rischi. A titolo esemplificativo, teniamo conto solo del “rischio trasporto” per tutti i pendolari che usano mezzi pubblici e i “rischi” aggiuntivi per chi usa la propria auto;

•             la riduzione dei costi sostenuti sia dal lavoratore, sia dal datore di lavoro. Per il primo, i costi di trasporto pubblico; le spese di carburante, manutenzione e ammortamento dell’automobile di proprietà. Per il secondo, il taglio dei costi per gli spazi fisici: le spese ordinarie generali d’ufficio e la drastica riduzione dei materiali di consumo;

•             la serenità del lavoratore che riesce a gestire con maggiore equilibrio l’impegno professionale e familiare (sebbene i risultati delle ricerche sulla soddisfazione generale del lavoratore non siano omogenee. Vedi sopra, la ricerca dell’Università Cattolica);

•             la riduzione dell’assenteismo.

sito promosso dall'Ufficio Comunicazioni Sociali dell'Arcidiocesi di Benevento per favorire il dialogo e il confronto tra componenti sociali e realtà ecclesiali presenti sul territorio, per far emergere notizie buone e vere che contribuiscano all'edificazione del Regno di Dio.

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